SAPEVO che quando fosse toccato a me parlare, quella era l’occasione per scrollarmi di dosso un grande peso.
Non avevo nulla di terribile da confessare. Dovevo solo presentarmi, ma avevo deciso di farlo senza riferirmi in alcun modo all’«io» che ero stato e questo mi sembrò una liberazione. Il mio nome, il mio lavoro, la mia nazionalità, tutto quello a cui un tempo sarei ricorso per definirmi, non mi parevano più «miei». Non mi riconoscevo più in quei pezzi d’identità. Mi ci sentivo intrappolato. Certo: erano parte della vita che avevo fatto, la vita di cui avevo goduto, ma erano anche i pezzi della vita che mi aveva portato prima alla depressione, poi al resto, e il lasciarmi tutto alle spalle per avviarmi verso qualcosa di completamente nuovo era un vero sollievo.
Il «nuovo» era già cominciato e accidenti se era diverso da tutto quello che era stato «mio» fino ad allora!
Ero shisha (uno che merita di studiare) in un ashram (eremo) nel Sud dell’India; vivevo in una cameretta spartanissima con una branda, un tavolino e uno sgabello di ferro; mangiavo con le mani, seduto per terra in un grande refettorio, da un piatto di acciaio inossidabile in cui, da grandi calderoni, mi venivano messe un paio di romaiolate di una qualche pappa strettamente vegetariana; studiavo i testi sacri indiani; prendevo lezioni di sanscrito, la lingua originaria in cui da qualche millennio quei testi venivano tramandati, e, stonato come sono, cercavo di imparare a cantare gli antichi inni vedici e i mantra, le formule magiche con cui si invoca l’aiuto divino per superare gli ostacoli sulla via della Conoscenza.
Ora si trattava di spiegare ai miei compagni shisha come ero arrivato lì. Davanti a me ne avevo un centinaio: uomini e donne di tutte le età, i più vestiti completamente di bianco, immobili nella posizione del loto, a guardarmi, ognuno sul proprio tappetino, in tante file parallele. Accanto avevo un vecchio magrissimo, completamente avvolto in una tunica arancione che gli copriva anche la testa, incorniciandogli il viso scuro e la lunga barba bianca: il Swami, il maestro, che avevo incontrato mesi prima al corso di Yoga e Suono in Pennsylvania. Stava raggomitolato su una poltrona e, rivolto verso la platea, sorrideva carezzandosi i piedi. Dalle finestre e dalle porte spalancate di quello stanzoneauditorio in cui noi shisha passavamo gran parte delle giornate, soffiava il solito bel vento caldo della sera e, per evitare che il fruscio quasi metallico delle palme coprisse le parole di quelli che il Swami chiamava a presentarsi, c’era un microfono.
Avevo riflettuto su cosa dire ed ero consapevole del fatto che è impossibile identificare con esattezza le cause di ciò che ci succede – e di quel che facciamo – perché mille e mille sono le indispensabili, irrintracciabili coincidenze di ogni singolo avvenimento. Certo, fra le ragioni immediate del mio esser finito in quell’ashram c’erano il mio malanno, la voglia di capire meglio l’India e quella di mettermi alla prova; ma soprattutto c’era la convinzione che la nostra vita è una continua costrizione, che ci muoviamo costantemente entro i limiti stretti di ciò che è scontato, lecito, decente; e che in fondo sul palcoscenico della società recitiamo solo delle parti, finendo per giunta col credere di essere i personaggi della commedia e non gli attori. Volevo provare qualcosa di diverso.
Anch’io, pur con un’esistenza più insolita e avventurosa del normale, ero vissuto, come tutti, entro i limiti autoimposti del previsto. Per trent’anni avevo fatto, da bravo, il figlio, il marito, il padre, l’amico, il giornalista, il viaggiatore e altro. Quelli erano stati i ruoli, le maschere con le quali mi ero anche divertito. Ma io? E poi, quale io? Quello giovane, timido, che arrossiva e combatteva le lacrime e le emozioni? O quello poi maturo, «giornalista internazionale», sempre un po’ stupito di essere preso sul serio dal mondo dei grandi a cui non mi è mai parso di appartenere davvero? Tanti «io». Tutti per giunta mutevolissimi, impermanenti. E nessun «io». Certo non più uno col quale mi sentissi a mio agio.
Ora volevo uscire da tutti quei ruoli, volevo saltare fuori dal cerchio stregato del conosciuto, scendere dal piedistallo delle certezze convenzionali. Volevo respirare senza maschera. Quel che un tempo m’era parso importante non mi pareva più tale e l’esserci corso dietro con tanta determinazione ora mi faceva semplicemente sorridere.
Come «attore» avevo avuto successo, ma per istinto sentivo di non potermi fermare a questo. Dovevo andare avanti, continuare a… cercare, come si dice, anche se non si sa esattamente cosa. Ma forse è proprio questo il punto, perché se si sapesse cosa cercare si rimarrebbe sempre nel conosciuto e non si scoprirebbe mai niente di nuovo.
All’epoca ne ero solo vagamente cosciente, ma la ragione profonda che mi aveva portato all’ashram era l’aspirazione a fare un nuovo tipo di viaggio: un viaggio dentro e non fuori; un viaggio la cui meta non era un luogo fisico ma un posto della mente, uno stato d’animo, una condizione di pace con me stesso e col mondo a cui agognavo ormai più che a qualsiasi altra cosa. E lì, in quella pace – lo sentivo istintivamente – stava anche la vera medicina per il malanno che mi affliggeva e forse anche per i diversi mali, fisici o meno, che affliggono oggigiorno tanti altri.
Presi il microfono in mano e in un paio di minuti riuscii a spiegarmi. Dissi che se il fiume in cui si entra con un piede non è già più quello in cui si mette l’altro – perché l’acqua scorre via -, anche l’uomo che avevano dinanzi non poteva più essere quello che solo qualche giorno prima era arrivato all’ashram, né tanto meno l’uomo di qualche mese, di qualche anno prima. Quell’uomo non esisteva più. Inutile allora cercare di parlarne.
Dissi che non volevo più ricorrere a chi ero stato come a una moneta di scambio, a quello che avevo fatto o non fatto come a una misura di grandezza o di semplice rispettabilità. Non volevo più parlare di me al passato, ma solo al presente. Avevo speso la vita a cercare di farmi un nome. Ora volevo viverne una senza. Cercavo di non ripetermi, di diventare un altro. Mi rendevo conto che questa non era una impresa da poco e che avrei dovuto lavorare duro su me stesso. Per cominciare mi impegnavo a mantenere il silenzio: per una settimana non avrei parlato. Contavo sul loro aiuto. Che mi chiamassero Anam, il Senzanome.
Restituendo il microfono al Swami, mi venne da ridere. Rise anche lui. Dalla platea degli shisha sentii venirmi addosso un’ondata di simpatia e questa non fece che aumentare il senso di leggerezza con cui lasciai la scena. Ebbi l’impressione d’essermi scaricato di dosso un sacco che per anni avevo portato sulle spalle e che solo ora scoprivo essere stato pieno di sassi e non di pietre preziose. L’Io, che inutile peso! Mi ero davvero stancato del mio, di quella figura che dovevo sempre portarmi dietro e ripresentare al pubblico. Quante volte in aereo, in treno, a una cena in casa di un diplomatico o al ricevimento di un qualche ministro avevo dovuto, con una obbligatorietà a cui non sapevo sottrarmi, raccontare per l’ennesima volta i soliti, divertenti aneddoti della mia vita, spiegare perché da italiano scrivevo per un settimanale tedesco come Der Spiegel, perché ero stato arrestato in Cina o che cosa pensavo del paese in cui al momento vivevo! Il tutto per intrattenere qualcuno, per essere simpatico.
Avevo tanto riso dei giapponesi con il loro «io» legato a ciò che sta scritto sulle loro meshi, i biglietti da visita, in cui sotto al nome, e più importante di quello, sono indicati il titolo e la posizione che occupano nella loro azienda. Io mi ero comportato esattamente allo stesso modo: per essere preso in considerazione, per non essere messo da parte presentavo anch’io, recitato invece che stampato, il mio biglietto da visita: quella identità di me da cui sembravo così tanto dipendere.
L’identità poi, come fosse un congegno delicato, richiedeva manutenzione, doveva essere lucidata, bisognava cambiarle l’olio. Dell’identità andava curato ogni aspetto: la pettinatura, il vestito, il modo di presentarsi, di telefonare, di mantenere i contatti, di rispondere agli inviti. Nel mio caso… anche il modo di cominciare un articolo! «Vali quel che valeva il tuo ultimo pezzo», mi aveva detto ancora ai tempi del Vietnam l’amico Martin Woollacott, collega del Guardian, e quel dover essere almeno all’altezza dell’Io dell’articolo precedente era diventata sempre più una ossessione. Il tutto per mantenere un nome. Il nome, sempre il nome. Quante cose dipendono nella vita dal nome! Il nome nella lista degli ammessi, dei promossi, dei vincitori, dei passeggeri; il nome in prima pagina. Sempre quel nome, quella identità. Che fatica!
Via. Tutto questo, via! Un altro po’ di inutile zavorra buttata a mare per affrontare meglio l’ultima traversata. A New York, per mano dei chirurghi avevo perso alcuni pezzi di me-corpo senza che io fossi scomparso. Ora io stesso mi toglievo altri pezzi: meno fisici questa volta. E che restava? Che restava di me senza il mio nome, la mia storia, senza quello a cui per una vita avevo così assiduamente lavorato?
Quella era la domanda di fondo per la quale eravamo tutti lì. E il Swami fin dalla prima lezione aveva detto che la risposta c’era e che l’avremmo trovata nel Vedanta, la parte finale dei Veda, dedicata al Sé che non nasce e non muore, il Sé che resta immutabile quando tutto cambia, il Sé la cui esistenza non dipende dall’esistenza di nient’altro.
Quando tornai al mio posto, l’uomo che stava seduto alla mia sinistra si alzò, spalancò le braccia e mi strinse a sé con grande forza, chiamandomi: «Anam-ji… Anam-ji» 1)↓.
Tiziano Terzani “Un altro giro di giostra”
1. | ↑ | In hindi, l’aggiunta di un «ji» al nome è un segno di rispetto. Quando in India ci si riferisce al Mahatma, ad esempio, si dice solitamente «Gandhi-ji » e nell’ashram ci si rivolgeva al Swami, o si parlava di lui, sempre chiamandolo «Swami-ji». |
William Blake: What is your name?
Nobody: My name is Nobody.
William Blake: Excuse me?
Nobody: My name is Exaybachay. He Who Talks Loud, Saying Nothing.
William Blake: He who talks… I thought you said your name was Nobody.
Nobody: I preferred to be called Nobody.