Un altro giro di giostra Tiziano Terzani

SA­PE­VO che quan­do fos­se toc­ca­to a me par­la­re, quel­la era l’oc­ca­sio­ne per scrol­lar­mi di dos­so un gran­de peso.
 Non ave­vo nul­la di ter­ri­bi­le da con­fes­sa­re. Do­ve­vo solo pre­sen­tar­mi, ma ave­vo de­ci­so di far­lo sen­za ri­fe­rir­mi in al­cun modo all’«io» che ero sta­to e que­sto mi sem­brò una li­be­ra­zio­ne. Il mio nome, il mio la­vo­ro, la mia na­zio­na­li­tà, tut­to quel­lo a cui un tem­po sa­rei ri­cor­so per de­fi­nir­mi, non mi pa­re­va­no più «miei». Non mi ri­co­no­sce­vo più in quei pez­zi d’iden­ti­tà. Mi ci sen­ti­vo in­trap­po­la­to. Cer­to: era­no par­te del­la vita che ave­vo fat­to, la vita di cui ave­vo go­du­to, ma era­no an­che i pez­zi del­la vita che mi ave­va por­ta­to pri­ma alla de­pres­sio­ne, poi al re­sto, e il la­sciar­mi tut­to alle spal­le per av­viar­mi ver­so qual­co­sa di com­ple­ta­men­te nuo­vo era un vero sol­lie­vo.

Imp. Giro di giostra

Il «nuo­vo» era già co­min­cia­to e ac­ci­den­ti se era di­ver­so da tut­to quel­lo che era sta­to «mio» fino ad al­lo­ra!
 Ero shi­sha (uno che me­ri­ta di stu­dia­re) in un ash­ram (ere­mo) nel Sud dell’In­dia; vi­ve­vo in una ca­me­ret­ta spar­ta­nis­si­ma con una bran­da, un ta­vo­li­no e uno sga­bel­lo di fer­ro; man­gia­vo con le mani, se­du­to per ter­ra in un gran­de re­fet­to­rio, da un piat­to di ac­cia­io inos­si­da­bi­le in cui, da gran­di cal­de­ro­ni, mi ve­ni­va­no mes­se un paio di ro­ma­io­la­te di una qual­che pap­pa stret­ta­men­te ve­ge­ta­ria­na; stu­dia­vo i te­sti sa­cri in­dia­ni; pren­de­vo le­zio­ni di san­scri­to, la lin­gua ori­gi­na­ria in cui da qual­che mil­len­nio quei te­sti ve­ni­va­no tra­man­da­ti, e, sto­na­to come sono, cer­ca­vo di im­pa­ra­re a can­ta­re gli an­ti­chi inni ve­di­ci e i man­tra, le for­mu­le ma­gi­che con cui si in­vo­ca l’aiu­to di­vi­no per su­pe­ra­re gli osta­co­li sul­la via del­la Co­no­scen­za.

Ora si trat­ta­va di spie­ga­re ai miei com­pa­gni shi­sha come ero ar­ri­va­to lì. Da­van­ti a me ne ave­vo un cen­ti­na­io: uo­mi­ni e don­ne di tut­te le età, i più ve­sti­ti com­ple­ta­men­te di bian­co, im­mo­bi­li nel­la po­si­zio­ne del loto, a guar­dar­mi, ognu­no sul pro­prio tap­pe­ti­no, in tan­te file pa­ral­le­le. Ac­can­to ave­vo un vec­chio ma­gris­si­mo, com­ple­ta­men­te av­vol­to in una tu­ni­ca aran­cio­ne che gli co­pri­va an­che la te­sta, in­cor­ni­cian­do­gli il viso scu­ro e la lun­ga bar­ba bian­ca: il Swa­mi, il mae­stro, che ave­vo in­con­tra­to mesi pri­ma al cor­so di Yoga e Suo­no in Penn­syl­va­nia. Sta­va rag­go­mi­to­la­to su una pol­tro­na e, ri­vol­to ver­so la pla­tea, sor­ri­de­va ca­rez­zan­do­si i pie­di. Dal­le fi­ne­stre e dal­le por­te spa­lan­ca­te di quel­lo stan­zo­neau­di­to­rio in cui noi shi­sha pas­sa­va­mo gran par­te del­le gior­na­te, sof­fia­va il so­li­to bel ven­to cal­do del­la sera e, per evi­ta­re che il fru­scio qua­si me­tal­li­co del­le pal­me co­pris­se le pa­ro­le di quel­li che il Swa­mi chia­ma­va a pre­sen­tar­si, c’era un mi­cro­fo­no.
 Ave­vo ri­flet­tu­to su cosa dire ed ero con­sa­pe­vo­le del fat­to che è im­pos­si­bi­le iden­ti­fi­ca­re con esat­tez­za le cau­se di ciò che ci suc­ce­de – e di quel che fac­cia­mo – per­ché mil­le e mil­le sono le in­di­spen­sa­bi­li, ir­rin­trac­cia­bi­li coin­ci­den­ze di ogni sin­go­lo av­ve­ni­men­to. Cer­to, fra le ra­gio­ni im­me­dia­te del mio es­ser fi­ni­to in quell’ash­ram c’era­no il mio ma­lan­no, la vo­glia di ca­pi­re me­glio l’In­dia e quel­la di met­ter­mi alla pro­va; ma so­prat­tut­to c’era la con­vin­zio­ne che la no­stra vita è una con­ti­nua co­stri­zio­ne, che ci muo­via­mo co­stan­te­men­te en­tro i li­mi­ti stret­ti di ciò che è scon­ta­to, le­ci­to, de­cen­te; e che in fon­do sul pal­co­sce­ni­co del­la so­cie­tà re­ci­tia­mo solo del­le par­ti, fi­nen­do per giun­ta col cre­de­re di es­se­re i per­so­nag­gi del­la com­me­dia e non gli at­to­ri. Vo­le­vo pro­va­re qual­co­sa di di­ver­so.
 Anch’io, pur con un’esi­sten­za più in­so­li­ta e av­ven­tu­ro­sa del nor­ma­le, ero vis­su­to, come tut­ti, en­tro i li­mi­ti au­toim­po­sti del pre­vi­sto. Per trent’anni ave­vo fat­to, da bra­vo, il fi­glio, il ma­ri­to, il pa­dre, l’ami­co, il gior­na­li­sta, il viag­gia­to­re e al­tro. Quel­li era­no sta­ti i ruo­li, le ma­sche­re con le qua­li mi ero an­che di­ver­ti­to. Ma io? E poi, qua­le io? Quel­lo gio­va­ne, ti­mi­do, che ar­ros­si­va e com­bat­te­va le la­cri­me e le emo­zio­ni? O quel­lo poi ma­tu­ro, «gior­na­li­sta in­ter­na­zio­na­le», sem­pre un po’ stu­pi­to di es­se­re pre­so sul se­rio dal mon­do dei gran­di a cui non mi è mai par­so di appar­te­ne­re dav­ve­ro? Tan­ti «io». Tut­ti per giun­ta mu­te­vo­lis­si­mi, im­per­ma­nen­ti. E nes­sun «io». Cer­to non più uno col qua­le mi sen­tis­si a mio agio.
 Ora vo­le­vo usci­re da tut­ti quei ruo­li, vo­le­vo sal­ta­re fuo­ri dal cer­chio stre­ga­to del co­no­sciu­to, scen­de­re dal pie­di­stal­lo del­le cer­tez­ze con­ven­zio­na­li. Vo­le­vo re­spi­ra­re sen­za ma­sche­ra. Quel che un tem­po m’era par­so im­por­tan­te non mi pa­re­va più tale e l’es­ser­ci cor­so die­tro con tan­ta de­ter­mi­na­zio­ne ora mi fa­ce­va sem­pli­ce­men­te sor­ri­de­re.
 Come «at­to­re» ave­vo avu­to suc­ces­so, ma per istin­to sen­ti­vo di non po­ter­mi fer­ma­re a que­sto. Do­ve­vo an­da­re avan­ti, con­ti­nua­re a… cer­ca­re, come si dice, an­che se non si sa esat­ta­men­te cosa. Ma for­se è pro­prio que­sto il pun­to, per­ché se si sa­pes­se cosa cer­ca­re si ri­mar­reb­be sem­pre nel co­no­sciu­to e non si sco­pri­reb­be mai nien­te di nuo­vo.
 All’epo­ca ne ero solo va­ga­men­te co­scien­te, ma la ra­gio­ne pro­fon­da che mi ave­va por­ta­to all’ash­ram era l’aspi­ra­zio­ne a fare un nuo­vo tipo di viag­gio: un viag­gio den­tro e non fuo­ri; un viag­gio la cui meta non era un luo­go fi­si­co ma un po­sto del­la men­te, uno sta­to d’ani­mo, una con­di­zio­ne di pace con me stes­so e col mon­do a cui ago­gna­vo or­mai più che a qual­sia­si al­tra cosa. E lì, in quel­la pace – lo sen­ti­vo istin­ti­va­men­te – sta­va an­che la vera me­di­ci­na per il ma­lan­no che mi af­flig­ge­va e for­se an­che per i di­ver­si mali, fi­si­ci o meno, che af­flig­go­no og­gi­gior­no tan­ti al­tri.
 Pre­si il mi­cro­fo­no in mano e in un paio di mi­nu­ti riu­scii a spie­gar­mi. Dis­si che se il fiu­me in cui si en­tra con un pie­de non è già più quel­lo in cui si met­te l’al­tro – per­ché l’ac­qua scor­re via -, an­che l’uomo che ave­va­no di­nan­zi non po­te­va più es­se­re quel­lo che solo qual­che gior­no pri­ma era ar­ri­va­to all’ash­ram, né tan­to meno l’uomo di qual­che mese, di qual­che anno pri­ma. Quell’uomo non esi­ste­va più. Inu­ti­le al­lo­ra cer­ca­re di par­lar­ne.
 Dis­si che non vo­le­vo più ri­cor­re­re a chi ero sta­to come a una mo­ne­ta di scam­bio, a quel­lo che ave­vo fat­to o non fat­to come a una mi­su­ra di gran­dez­za o di sem­pli­ce ri­spet­ta­bi­li­tà. Non vo­le­vo più par­la­re di me al pas­sa­to, ma solo al pre­sen­te. Ave­vo spe­so la vita a cer­ca­re di far­mi un nome. Ora vo­le­vo vi­ver­ne una sen­za. Cer­ca­vo di non ri­pe­ter­mi, di di­ven­ta­re un al­tro. Mi ren­de­vo con­to che que­sta non era una im­pre­sa da poco e che avrei do­vu­to la­vo­ra­re duro su me stes­so. Per co­min­cia­re mi im­pe­gna­vo a man­te­ne­re il si­len­zio: per una set­ti­ma­na non avrei par­la­to. Con­ta­vo sul loro aiu­to. Che mi chia­mas­se­ro Anam, il Sen­za­no­me.
 Re­sti­tuen­do il mi­cro­fo­no al Swa­mi, mi ven­ne da ri­de­re. Rise an­che lui. Dal­la pla­tea de­gli shi­sha sen­tii ve­nir­mi ad­dos­so un’on­da­ta di sim­pa­tia e que­sta non fece che au­men­ta­re il sen­so di leg­ge­rez­za con cui la­sciai la sce­na. Ebbi l’im­pres­sio­ne d’es­ser­mi sca­ri­ca­to di dos­so un sac­co che per anni ave­vo por­ta­to sul­le spal­le e che solo ora sco­pri­vo es­se­re sta­to pie­no di sas­si e non di pie­tre pre­zio­se. L’Io, che inu­ti­le peso! Mi ero dav­ve­ro stan­ca­to del mio, di quel­la fi­gu­ra che do­ve­vo sem­pre por­tar­mi die­tro e ri­pre­sen­ta­re al pub­bli­co. Quan­te vol­te in ae­reo, in tre­no, a una cena in casa di un di­plo­ma­ti­co o al ri­ce­vi­men­to di un qual­che mi­ni­stro ave­vo do­vu­to, con una ob­bli­ga­to­rie­tà a cui non sa­pe­vo sot­trar­mi, rac­con­ta­re per l’en­ne­si­ma vol­ta i so­li­ti, di­ver­ten­ti aned­do­ti del­la mia vita, spie­ga­re per­ché da ita­lia­no scri­ve­vo per un set­ti­ma­na­le te­de­sco come Der Spie­gel, per­ché ero sta­to ar­re­sta­to in Cina o che cosa pen­sa­vo del pae­se in cui al mo­men­to vi­ve­vo! Il tut­to per in­trat­te­ne­re qual­cu­no, per es­se­re sim­pa­ti­co.
 Ave­vo tan­to riso dei giap­po­ne­si con il loro «io» le­ga­to a ciò che sta scrit­to sul­le loro me­shi, i bi­gliet­ti da vi­si­ta, in cui sot­to al nome, e più im­por­tan­te di quel­lo, sono in­di­ca­ti il ti­to­lo e la po­si­zio­ne che oc­cu­pa­no nel­la loro azien­da. Io mi ero com­por­ta­to esat­ta­men­te allo stes­so modo: per es­se­re pre­so in con­si­de­ra­zio­ne, per non es­se­re mes­so da par­te pre­sen­ta­vo anch’io, re­ci­ta­to in­ve­ce che stam­pa­to, il mio bi­gliet­to da vi­si­ta: quel­la iden­ti­tà di me da cui sem­bra­vo così tan­to di­pen­de­re.
 L’iden­ti­tà poi, come fos­se un con­ge­gno de­li­ca­to, ri­chie­de­va ma­nu­ten­zio­ne, do­ve­va es­se­re lu­ci­da­ta, bi­so­gna­va cam­biar­le l’olio. Dell’iden­ti­tà an­da­va cu­ra­to ogni aspet­to: la pet­ti­na­tu­ra, il ve­sti­to, il modo di pre­sen­tar­si, di te­le­fo­na­re, di man­te­ne­re i con­tat­ti, di ri­spon­de­re agli in­vi­ti. Nel mio caso… an­che il modo di co­min­cia­re un ar­ti­co­lo! «Vali quel che va­le­va il tuo ul­ti­mo pez­zo», mi ave­va det­to an­co­ra ai tem­pi del Viet­nam l’ami­co Mar­tin Wool­la­cott, col­le­ga del Guar­dian, e quel do­ver es­se­re al­me­no all’al­tez­za dell’Io dell’ar­ti­co­lo pre­ce­den­te era di­ven­ta­ta sem­pre più una os­ses­sio­ne. Il tut­to per man­te­ne­re un nome. Il nome, sem­pre il nome. Quan­te cose di­pen­do­no nel­la vita dal nome! Il nome nel­la li­sta de­gli am­mes­si, dei pro­mos­si, dei vin­ci­to­ri, dei pas­seg­ge­ri; il nome in pri­ma pa­gi­na. Sem­pre quel nome, quel­la iden­ti­tà. Che fa­ti­ca!
 Via. Tut­to que­sto, via! Un al­tro po’ di inu­ti­le za­vor­ra but­ta­ta a mare per af­fron­ta­re me­glio l’ul­ti­ma tra­ver­sa­ta. A New York, per mano dei chi­rur­ghi ave­vo per­so al­cu­ni pez­zi di me-cor­po sen­za che io fos­si scom­par­so. Ora io stes­so mi to­glie­vo al­tri pez­zi: meno fi­si­ci que­sta vol­ta. E che re­sta­va? Che re­sta­va di me sen­za il mio nome, la mia sto­ria, sen­za quel­lo a cui per una vita ave­vo così as­si­dua­men­te la­vo­ra­to?
 Quel­la era la do­man­da di fon­do per la qua­le era­va­mo tut­ti lì. E il Swa­mi fin dal­la pri­ma le­zio­ne ave­va det­to che la ri­spo­sta c’era e che l’avrem­mo tro­va­ta nel Ve­dan­ta, la par­te fi­na­le dei Veda, de­di­ca­ta al Sé che non na­sce e non muo­re, il Sé che re­sta im­mu­ta­bi­le quan­do tut­to cam­bia, il Sé la cui esi­sten­za non di­pen­de dall’esi­sten­za di nient’al­tro.
 Quan­do tor­nai al mio po­sto, l’uomo che sta­va se­du­to alla mia si­ni­stra si alzò, spa­lan­cò le brac­cia e mi strin­se a sé con gran­de for­za, chia­man­do­mi: «Anam-ji… Anam-ji» 1)↓.
Tiziano Terzani “Un altro giro di giostra”

   [ + ]

1. In hin­di, l’ag­giun­ta di un «ji» al nome è un se­gno di ri­spet­to. Quan­do in In­dia ci si ri­fe­ri­sce al Ma­hat­ma, ad esem­pio, si dice so­li­ta­men­te «Gan­d­hi-ji » e nell’ash­ram ci si ri­vol­ge­va al Swa­mi, o si par­la­va di lui, sem­pre chia­man­do­lo «Swa­mi-ji».

One thought on “Un altro giro di giostra Tiziano Terzani

  1. nobody

    William Blake: What is your name?
    Nobody: My name is Nobody.
    William Blake: Excuse me?
    Nobody: My name is Exaybachay. He Who Talks Loud, Saying Nothing.
    William Blake: He who talks… I thought you said your name was Nobody.
    Nobody: I preferred to be called Nobody.

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